05 gennaio 2009

Un magnifico tramonto


Io, corrispondente al confine di sogni remoti, attore non protagonista in congedo dell’esistenza; giovane uomo disilluso che imbottisce il suo cappotto di cultura contro un inverno che spiffera dall’uscio; che più lo esplora e più s’accorge di quanto vasto sia l’animo umano, ed entrando in una libreria al “Desidera?” della commessa si ripete “Già, che desidero?”. Sarà forse la mappa dell’irrazionale, quel che vado cercando? Vana illusione, come può esistere traccia fissa di ciò che è in continuo movimento?

Io, che viaggerei il mondo con una chitarra se solo sapessi suonarla, e mi pagherei il ritorno con le emozioni della gente, che prenderei una scimmia a nolo per insegnarle a parlare, e farei l’amore con la luna a cavallo di un wallaby; io, distratto lavoratore, incantato spettatore di un magnifico tramonto riflesso sulle nubi. Di un cielo stracciato a metà fra un azzurro così perfetto da non poter essere che Divino e il grigio chiaro delle nuvole che vira in rosa e poi in blu, dove tutto è turbolenza. Vedo noi, e il nostro mondo. Aspiro la nostra umanità, e mi sento così fragile. E’ paradossale come sia necessario spingersi nelle profondità più remote, esser pervasi dalla tristezza più infinita per poter conoscere la gioia più alta. Alzo il volume, perché la struggente malinconia di questa canzone mi contagi trascinandomi nel suo abisso. Conosco la lealtà del gorgo, per questo gli concedo la vittoria. Avrà ciò che vuole. Poi mi risputerà fuori.

5 commenti:

rossibenedetto ha detto...

Dopo una prima lettura sono stato preso nel gorgo e da allora ho pensato a come venirne fuori. Credo ci sia poco da fare contro l'inquietudine di vivere, che penso ti abbia condizionato nella stesura di questo testo (che sia o non sia autobiografico). Inquietudine, sì, e irrequietezza (lo scrittore-viaggiatore Bruce Chatwin ne sapeva qualcosa), nostalgia, malinconia. Sentimenti vorticosi che risvegliano in noi lo spirito nomade primordiale, o che ci fanno viaggiare nel tempo e nell'immaginazione.
“Alzo il volume, perché la struggente malinconia di questa canzone mi contagi trascinandomi nel suo abisso. Conosco la lealtà del gorgo, per questo gli concedo la vittoria. Avrà ciò che vuole. Poi mi risputerà fuori”: sì, credo che il silenzio dopo una canzone ci faccia tornare al punto di partenza (e noi intanto pensavamo di vivere o di aver vissuto una vita diversa).

rossibenedetto ha detto...

Dimenticavo...
Credo che questo testo abbia qualcosa in comune con "Bar SanMarco" (http://blog.libero.it/PilloleDiFollia/5283737.html), sia per ciò che trasmette, sia per lo stile adottato (tentativo di essenzialità e di precisione espressiva). Sei d'accordo?

Grilletto81 ha detto...

Credo che se si volesse trovare un punto d'incontro per questi due testi, quello sarebbe proprio sull'essenzialità del testo. Molte volte mi rimprovero nel parlare l'utilizzo di giri di parole per esprimere un concetto per cui è coniato un termine apposito e certamente più efficace. Lo sforzo nella stesura era teso proprio a quello, sei stato attento ad accorgertene. Quanto al contenuto, direi che non c'è troppo in comune fra i due testi, se non il concetto del viaggio (immobile): uno a ritroso nel tempo e nella malinconia, l'altro nel sentimento e nell'animo umano.

Anonimo ha detto...

Questo testo va letto sicuramente con molta calma, almeno per me. Non capisco esattamente cosa vuoi trasmettere, ma a mio avviso colgo un senso di "insoddisfazione"/malinconia di una persona che ce la mette tutta, nella vita, a migliorarsi e si migliora, ma rimane sempre un qualcosa che lo ostacola (per esempio la chitarra) e questo causa un senso di insoddisfazione. Beh, del resto non si può mica fare/avere tutto nella vita e qualche "mancanza" (da interpretarsi come ostacolo) esiste sempre. Purtroppo alla fine... è solo una questione di tempo :) Quello che ho scritto non è una supercazzola Salut! Jon

Anonimo ha detto...

Qualcuno di bravo e famoso, talmente bravo e famoso che non so più chi fosse (ma sospetto fortemente che si tratti di Aristotele), diceva che il tutto è sempre maggiore della somma delle parti. Se tu scomponessi la vita umana in peli superflui, catarri, liquidi seminali, vari strati di epidermide consunti dal tempo, ascoltature di canzoni, letture di varie dabbenaggini scritte qua e là su bigliettini e muri sporchi di cessi, bramosìe sessuali di varia natura, colpi di campioni calcistici da far rizzare le setole - seppur canute - della coppa, ammiccamenti e consensi, preferenze elettorali e commerciali, eccetera eccetera, non sbaglieresti di molto. Con un paziente lavoro di qualche anno potresti enumerare tutto quello di percettibile c'è per i viventi. Potresti catalogare tutte le cose fisiche, che esistono davvero. Cionondimeno non avresti ancora detto tutto. C'è qualcosa che esula. Alcuni lo chiamano spirito, qualche altro parla di anima o di Dio. Io dico che è "altro" o "oltre", a seconda di come mi gira. Quell'Aristotele lì, così tanti anni fa, c'aveva visto giusto. E suppongo che il medesimo fenomeno dell'oltre, sia applicabile a ciascuna di queste componenti fisiche della nostra vita. Anche vedere una luna o un tramonto, non sono esperienze del tutto scomponibili in parti tangibili. C'è qualcosa di non detto e di non dicibile, di ineffabile. Qualcosa che ci prende e per fortuna ci vince, almeno per quel poco che dura. Leopardi era uno dei più grandi guardatori di lune e non riusciva a spiegarsi quel qualcosa in più non altrimenti catalogabile. Le domandava "dimmi che fai, silenziosa luna" e quella non rispondeva e brillava di luce non sua. Se fossimo in grado di tradurre anche quello spirito, quell'anima, quel qualcosa che rende il tutto maggiore della somma delle parti, avremmo perso la nostra sola speranza.

Posta un commento